L'avventura italiana di un inglese del XIX secolo
Società Editrice Apuana srl, 2023Nuovo
A questo lavoro di Marcello Bernieri va attribuito un primo merito che è quello di avere riportato in primo piano, al termine di una specifica ricerca mai svolta prima d’ora, la figura di William Walton, uno dei protagonisti più importanti della storia dell’industria marmifera carrarese del secolo scorso, sicuramente il più importante assieme a Carlo Fabbricotti (Carlazz’).
Ma ci sono altri e più stimolanti motivi di interesse in questa pubblicazione, il cui titolo, molto appropriatamente, si riferisce sia al protagonista che al “suo tempo”.
Il tempo di Walton e di Carlazz’.
Ritorniamo ad occuparci di un periodo cruciale della storia dell’economia marmifera carrarese, quei trent’anni compresi tra il 1850 ed il 1880 che hanno visto il decollo di questa economia, un periodo che la storiografia locale aveva fino ad oggi relegato nello spazio riduttivo di pochi capitoli contenuti in opere dedicate a temi più generali di carattere socio-politico, o affidato a qualche breve relazione di tipo convegnistico.
In altre occasioni ci siamo già chiesti se in quel periodo l’economia marmifera carrarese sia stata protagonista di un processo di sviluppo oppure di crescita. Se sia stata, in altre parole, partecipe o meno di quel vasto e complesso sommovimento, economico e culturale, che viene comunemente definito con il termine rivoluzione industriale. Ci sono stati, e tuttora permangono, molti dubbi a questo proposito. Si è potuto constatare, infatti, che nel corso dei trentanni che stiamo considerando, ma anche successivamente, l’aumento della produzione del grezzo (innescato, è utile ricordarlo, dall’invenzione, avvenuta nel 1831, della miccia a combustione lenta che aveva consentito un uso razionale della polvere pirica) non si è accompagnato ad un aumento della produttività, così come avveniva in tutti i settori investiti dalla rivoluzione industriale; e tanto meno ad un regime di prezzi decrescenti. I prezzi, anzi, continuarono a crescere durante tutto l’arco del trentennio, segno evidente della impossibilità di recuperare in termini di produttività l’aumento dei costi.
Il fatto è che all’economia marmifera carrarese faceva difetto uno dei presupposti della rivoluzione industriale e cioè l’esistenza di una moderna classe borghese.
La borghesia carrarese, dopo avere realizzato con successo il processo di appropriazione degli agri marmiferi sul quale Antonio Bernieri, fratello di Marcello, ci ha lasciato pagine illuminanti, si era formata culturalmente ed organizzata economicamente al riparo di un duplice oligopolio: quello produttivo, conseguente al possesso degli agri marmiferi, e quello commerciale, che le veniva assicurato da un particolare prodotto, il marmo bianco, che non aveva concorrenti.
Non c’è da meravigliarsi che una borghesia così formatasi esprimesse una forte vocazione alla rendita (l’istituto del settimo simboleggia efficacemente questa vocazione), una predisposizione alla conservazione dello status quo ed una congenita idiosincrasia per tutto ciò che sapeva di innovazione.
Questa tesi non è solo il risultato di una rilettura storica di quel periodo ma è anche un tema ricorrente nella pubblicistica più avvertita di allora. Il Magenta, in un libro apparso nel 1871, lamentava che:
“Oggidì appena due o tre intraprenditori si dimostrano debolissimamente versati nelle massime fondamentali della geologia e della meccanica; gli altri centinaia ne sono ignari... per cui veggiamo la maggior parte delle cave male coltivate, veggiamo il più prezioso marmo seppellito per sempre da un monte di rottame; veggiamo opifici senza comodi, con vieti meccanismi, ed esposti all’impeto delle grosse fiumane... veggiamo infine nei più avveduti industrianti quella morbosa riluttanza ad ogni perfezionamento...”
Di questa “morbosa riluttanza” troviamo qualche riscontro in alcune pagine del lavoro di Marcello Bernieri, sopratutto nella parte dedicata alle innovazioni che, nella vicina Versilia, furono adottate per migliorare gli impianti di segagione.
Ma il riscontro più eclatante ce lo fornisce tutta la vicenda imprenditoriale di William Walton; l’inglese venuto dalla contea di York era figlio del suo paese e del suo tempo, e tanto bastò per farne un “anomalo” rispetto al paleo-capitalismo della borghesia carrarese; inoltre seppe interpretare il proprio ruolo con un dinamismo ed una lungimiranza che lo configurarono come un “antesignano” in quasi tutte le imprese, e furono tante, alle quali si dedicò durante la sua lunga permanenza a Carrara; “realizzando”, come scrive il Bernieri “assieme alla sua personale fortuna obiettivi di alto interesse comune.”
Bisogna aggiungere che da questa vicenda si ripropone il tema, sempre enunciato e mai approfondito dalla storiografia locale, del ruolo che gli imprenditori stranieri hanno avuto nello sviluppo della nostra industria marmifera. Si pensava ad un ruolo importante. Riflettendo sulla storia di Walton ed immaginando, per quanto sia possibile, quali e quanti contributi possano essere venuti dagli altri operatori stranieri, è più probabile che questo ruolo sia stato addirittura decisivo.
Per chiudere con una semplice, ma significativa curiosità, va ricordato che al motto della “torre che non crolla all’impeto dei venti” William Walton contrappose, con l’humour e la compostezza degli inglesi, il suo “vivi e lascia vivere”. Lo lasciarono vivere, seppure tra molti problemi, e lui vinse la sua battaglia contro la “morbosa riluttanza dei più avveduti industrianti.
Fu ripagato negandogli la cittadinanza, che fu conferita, dopo la sua morte, al nipote. Per i meriti dello zio!
Giulio Conti
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